Perché lui, «comunista» della penultima ora, nel 1974 non diceva: «La
famiglia tradizionale fa schifo». La sua era una problematizzazione più
raffinata. Diceva: «La famiglia tradizionale fa schifo, ma che faccio
quando mi accorgo di non poterne fare a meno?». Non sventolava bandiere
rosse, ma grattava lì dove i compagni preferivano glissare. Non sognava
la rivoluzione: era troppo impegnato ad evidenziare i malanni delle
«avanguardie» che la dovevano scatenare. Era un compagno, ma dandosi
un'occhiata in giro alla fine degli anni Settanta già se ne vergognava.
Nel 1978 non si fece scrupoli a gridare: «Non sono più compagno, né
femministaiolo militante. Mi fanno schifo le vostre animazioni, le
ricerche popolari, e le altre cazzate. E finalmente non sopporto neanche
le vostre donne liberate, con cui voi discutete democraticamente.
Quando è merda, è merda, non ha importanza la specificazione». A
teatro portava il sarcasmo per tutto un mondo che si scioglieva nella
sua impotenza, e bersagliava sia le avanguardie che le istituzioni.
All'indomani dell'affaire Moro, vide nelle piazze le bandiere
rosse sventolare a fianco delle bianche: era la concordia nazionale,
surrogato dello sfiorato compromesso storico tra PCI e DC. Scrisse Io se fossi Dio: Aldo Moro «restava ancora quella faccia che era»,
nonostante il rapimento, nonostante fosse diventato di punto in bianco
un eroe, nonostante la pietà istituzionale. A questa era allergico, il
signor G. Così come non sopportava lo Stato: lo considerava la «macchia
nera» dell'inefficienza, dell'impersonalità, del malaffare. Rideva della
sua mitologia, scherzava sulle elezioni: «È proprio vero che fa bene
un po' di partecipazione. Con cura piego le due schede, e guardo ancora
la matita, così perfetta e temperata. Io quasi quasi me la porto via.
Democrazia...». Allo Stato non credeva affatto, a differenza dei
politici di sinistra che ogni tanto rispolverano il suo motivetto più
famoso, «Libertà è partecipazione». Anni fa si rifiutò di cedere
al PSI i diritti della canzone perché ne diventasse l'inno. Come avrebbe
reagito di fronte a Santoro e Formigoni, che l'hanno gorgogliata ad Annozero? Forse, se fosse stato ancora in vita, si sarebbero risparmiati lo spettacolo.
Quando l'Unione Sovietica crollò, decretando la fine del socialismo e
del sogno di tanti fortunati che non l'avevano mai toccato con mano,
Gaber scrisse la celeberrima Qualcuno era comunista. Più che
politico, disse lui poco dopo, era un monologo esistenziale: lui credeva
in qualcosa che adesso non c'è più, e anche chi comunista non è mai
stato può cogliere il senso di tale dolore. Un abbandono che ribadiva i
versi tristi dell'inizio degli anni Ottanta: «Quella magnifica
illusione non era mica un'idiozia. Ma tu che sei stato tradito nella tua
aspirazione ora pensi che tutte le idee siano coglione. Razza già
finita, senza neanche cominciare, razza disossata già in attesa di
morire. No, non fa male credere. Fa molto male credere male». Si è
spento dieci anni fa, il signor G. Non si è perso granché. Ora che il
partito egemone a sinistra si chiama Partito Democratico, ne riderebbe.
Democrazia? Cioè quella cosa per cui «tu deleghi un partito, che
sceglie una coalizione, che sceglie un candidato che tu non sai chi è e
che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se lo incontri ti
dice giustamente: lei non sa chi sono io»? Stiamo freschi. Mi sono
dilungato, la chiudo qui. Due parole ancora, sulla crisi e sul mondo
politico italiano. Sono sue, e risalgono al 1978. Il sarcasmo è
palpabile: «Bisogna far proposte in positivo, senza calcare la mano
sulle possibili carenze: lasciamo perdere il pessimismo, l'insofferenza
generale dei giovani, i posti di lavoro, l'instabilità, gente che non ne
può più, la rabbia, la droga, l'incazzatura, lo spappolamento, il
bisogno di sovvertire, il rifiuto, la disperazione. Cerchiamo di essere
realisti!».
di PAOLO AMIGHETTI
Nessun commento:
Posta un commento